Saturday, December 25, 2021

Guido Nozzoli salvò San Marino dalle bombe alleate

Guido Nozzoli nasce a Rimini il 2 dicembre 1918.

All'inizio del 1943 viene arrestato in caserma a Bologna, con l'accusa di attività sovversiva mediante distribuzione di volantini intitolati «Non credere, non obbedire, non combattere»; l'altro autore, pure lui incarcerato dietro una delazione di un "amico" comune, è Gino Pagliarani. Entrambi vengono condannati ma subito amnistiati per il Ventennale del Fascismo

Dopo l'8 settembre '43 torna a Rimini e organizza subito un gruppo per la resistenza armata a fascisti e tedeschi

Eletto consigliere comunale del PCI nel 1946, in occasione delle elezioni politiche del 1948 svolge intensa attività di propaganda. Al termine d'un acceso contraddittorio, il celebre cappuccino padre Samoggia, uscito sconfitto nel confronto dialettico, gli scarica addosso anatemi e maledizioni.

Nel frattempo ha iniziato la sua attività di giornalista al «Progresso d'Italia», continuando come inviato a «l'Unità» (edizione di Milano) ed infine a «Il Giorno».

Nel 1973, a soli 55 anni, Guido Nozzoli lascia il giornalismo e da allora non scrive più nemmeno un rigo, ritirandosi nella sua Rimini a condurre l'appartata vita di un tempo.

Nel 1999 la città di Rimini gli assegna il Sigismondo d'Oro.

Guido Nozzoli muore a Rimini l'11 novembre 2000.

Di lui Sergio Zavoli ebbe a dire: «Guido ha interpretato la militanza politica e l'appartenenza partitica con una idealità mai faziosa, dogmatica; fu anzi protagonista di risolute "eresie" in nome dell'intelligenza della Storia e delle ragioni umane, sapendo vivere il suo "scandalo" senza compiacimenti o malizie, ma con la più disarmata e disarmante limpidezza [...] mai indulgendo all'abiura, semmai incline al più trasparente e polemico dei distacchi».

Alla copia della lettera inviata all'Istituto Istituto per la Storia della Resistenza aggiungo per i nostri lettori alcune notizie.

Rimini è distrutta dai bombardamenti tra primo novembre 1943 e 21 settembre 1944. La Repubblica di San Marino diventa uno «sterminato rifugio», come dichiarò a Bruno Ghigi lo stesso Guido Nozzoli. Che il 19 settembre 1944, mentre si combatte per la presa di Borgo Maggiore, riesce a passare le linee ad Acquaviva giocando il cane di famiglia, Garbì. Deve contattare ufficiali dell'Ottava Armata che stanno preparando la "seconda Cassino". Si consegna loro prigioniero e li informa della «drammatica situazione dei civili rintanati nelle gallerie». Il comando inglese rinuncia così «al bombardamento di spianamento di San Marino programmato prima». Il Titano è salvo con gli oltre centomila rifugiati italiani. Nozzoli, allora sottotenente del Regio Esercito, scrive in un documento ufficiale (edito da Liliano Faenza nel 1994): «Assicurai l'assoluta assenza di batterie tedesche nel perimetro della città».

Wednesday, July 24, 2013

Rimini San Marino luglio 1943

Il 18 luglio l'ultima sfilata dei giovani fascisti percorre le vie di Rimini, con inni e discorsi. La banda della GIL intona gli inni della patria e della rivoluzione. La solita musica. Che stava per cambiare. I primi manifesti antifascisti apparsi nel giugno '43 nelle sale d'aspetto delle stazioni ferroviarie fra Rimini e Imola, sono nati nelle riunioni della parrocchia di San Nicolò fra Ercole Tiboni, Renato Zangheri e don Angelo Campana, insegnante di Religione al liceo classico. Tiboni diventerà socialista, Zangheri comunista. Oggetto degli incontri, ha ricordato Vincenzo Cananzi, erano temi vari: "dal significato della democrazia, al valore dell'economia di mercato, dai rapporti fede e politica alla liceità della ribellione ai regimi totalitari, dalle differenze ideologiche tra i vari partiti politici ai mutamenti da introdurre nell'economia al termine della guerra".

"Qualcosa allora aveva cominciato a muoversi nel sottosuolo della città, sia pure impercettibilmente", ha scritto Faenza raccontando il periodo tra la fine del '42 e l'inizio del '43: "Alcuni giovani, toccati dalla resistenza armata russa e dalla sua capacità controffensiva a Stalingrado, avevano cercato contatti con elementi antifascisti. Altri giovani tra cui lo Zangheri, allora attento lettore di scritti tomistici, si erano invece interessati agli incontri di studio sulla dottrina sociale della Chiesa e sul pensiero di don Sturzo, presso la Fuci di via Bonsi, a cui era presente l'ex popolare Giuseppe Babbi e qualche volta Benigno Zaccagnini".

A Rimini "c'erano poi i ragazzi sfollati dalle città del Nord. Un centinaio circa, disseminati per le varie scuole e nei due licei. Costoro avevano portato con sé, nelle classi, un'atmosfera diversa, il clima del dramma delle loro città che poteva per essi volgersi in tragedia, ma che intanto imponeva agli altri, anche ai meno sensibili, una pausa di riflessione, scuotendoli da una sonnolenta atmosfera provinciale".

Zangheri, che nella primavera del '43 organizza la lettura di un dattiloscritto che riproduce la vita di Gramsci scritta da Togliatti, a diciassette anni nel 1942 ha collaborato al periodico studentesco fascista riminese Testa di Ponte scrivendo contro "i vigliacchi di pensiero e dell'azione". Ma ha pure polemizzato con Glauco Jotti portavoce di quegli squadristi a cui prudevano le mani e stavano in attesa di un semplice ordine per usare il manganello: "Assaltiamo per ora noi stessi […] perché ognuno ha le sue colpe, e se qualcosa vi è ancora di lercio nella nostra coscienza, togliamolo".

A Testa di Ponte ha collaborato anche Sergio Zavoli: "Oggi più di ieri abbiamo bisogno di scuotere i famosi "montoni belanti", "pecore rognose"… Attorno a te c'è ancora troppa gente che non sa e non è degna di vivere questo grande momento… Deve essere dato a tutti il privilegio di ‘vivere' e ‘vincere'. Con ogni mezzo". In un altro suo articolo si legge: "Io non sono psicologo: pure con la fiducia nelle nostre idee e in quelle delle generazioni capaci di comprenderci, arriveremo!".

La tragedia della guerra, con la constatazione di quanto fosse stato illusorio il sogno di un conflitto rapido e con la scoperta di un'impreparazione militare che andava a scontrarsi con i miti del guerriero fascista, costringe ad una scelta i ragazzi allevati al canto di Giovinezza. Sono studenti, operai, contadini. Le documentazioni storiche limitano spesso il discorso a quel gruppo di giovani, quasi sempre intellettuali, che hanno potuto e saputo riproporre le vicende della guerra, attraverso scritti ed interventi. Per gli altri basta riandare alle cronache dolorose di quei mesi tra '43 e '44, ed allora ritroviamo accanto ad un professore di scuola media come il santarcangiolese Rino Molari, il ferroviere di Rimini Walter Ghelfi, entrambi fucilati a Fossoli nel luglio '44 assieme ad Edo Bertaccini di Coriano, capitano dell'ottava brigata Garibaldi.

La contestazione, tra serietà di un impegno politico che s'affacciava pallido nell'ansietà giovanile e goliardate che avevano mosso alcuni nelle occasioni ufficiali del regime, diventa opposizione, sacrificio personale, rischio della lotta. È la guerra. La guerra civile. Compagni delle stesse classi e nelle stesse adunate si ritrovano nemici su barricate opposte. Le strade si sono divise.

[Pagina tratta dal cap. II de "I giorni dell'ira. Settembre 1943 - settembre 1944 a Rimini e a San Marino".]

Alle 22.45 del 25 luglio 1943 l'Eiar trasmette la notizia della caduta di Mussolini. Il duce è stato arrestato alle 17 all'uscita da un breve colloquio con Vittorio Emanuele III a Villa Savoia sulla via Salaria. Fatto salire dai regi carabinieri a bordo di un'ambulanza, è trasferito a Ponza, poi tradotto alla Maddalena ed a Campo Imperatore sul Gran Sasso. Quel pomeriggio tra i soldati ignari trasportati all'improvviso dalla Cecchignola a presidiare l'immenso parco di Villa Savoia, c'era il romagnolo Gino Pilandri. La mattina dopo, ha ricordato Pilandri a Bruno Ghigi, il re "piccolo, traballante, sorretto da due ufficiali perché non scivolasse nell'erba", andò a distribuire tavolette di cioccolata ai militari rimasti in servizio per tutta l che "non sapeva darsi pace", ben noto in città.

La stessa mattina alcuni sammarinesi s'incontrano a Rimini nello studio del dentista dottor Alvaro Casali, allo scopo di organizzare una manifestazione per indurre il governo di San Marino alle dimissioni. Tra 27 e 28 luglio sono arrestati alcuni esponenti del fascismo riminese: Giuffrida Platania, Perindo Buratti, Eugenio Lazzarotto, Giuseppe Betti e Valerio Lancia (che era stato anche il federale della città). Li libereranno i tedeschi il 13 settembre. Racconterà Buratti: "Il 27 o 28 luglio del '43 andai a Roma. Mi accompagnai col capitano dei carabinieri Bracco che da Rimini era stato trasferito a Roma… Quando, dopo una decina di giorni, tornai, il mio amico e fascista Motta, commissario di PS mandò un agente a casa mia -abitavo in piazza Malatesta- a vedere se c'ero. E poiché c'ero mi mandò a dire che andassi da lui. Non temessi: era un amico e un fascista. E mi mise in galera. Per protezione, mi disse".

Qualche altro personaggio in vista cerca raccomandazioni per il futuro, presso gli antifascisti. È il caso dell'avv. Salvatore Corrias, dell'Istituto di Cultura fascista, che va a trovare il socialista Mario Macina, padre di quell'Ennio picchiato quattro anni prima dal pugile Benito Totti per aver denigrato il passo romano con movenze frivole. Corrias è il primo a fare discorsi antifascisti in piazza.

Otto settembre, tutti a casa. Qualcuno organizza la resistenza ai nazifascisti, come Carlo Capanna, uno studente riminese dell'Accademia aeronautica di Forlì, che se ne scappa a Meldola con un fucile, una pistola ed un grosso pacco di caricatori per il fucile. Il 10 settembre, giorno dell'occupazione tedesca di Roma, a Rimini due autocarri-radio dei nazisti s'installano in piazza Giulio Cesare. L'11 una pattuglia di motociclisti germanici giunge sul piazzale della nostra stazione ferroviaria. Il 12 alcuni reparti nazisti presidiano i punti nevralgici della città. I Comandi tedeschi occupano i migliori alberghi.

Lo stesso giorno la prefettura di Forlì pubblica un bando del Feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante in capo tedesco in Italia, che segna la resa italiana ai nazisti: "Il territorio dell'Italia a me sottoposta è dichiarato territorio di guerra. In esso sono valide le leggi tedesche di guerra". Soldati, ufficiali e comandanti italiani che opporranno resistenza agli ordini emanati dai tedeschi verranno trattati "come FRANCOTIRATORI". Sui proclami dei nazisti, nottetempo sono apposte strisce con "A morte i tedeschi e i fascisti", stampate a Morciano dalla tipografia di Luigi Cavalli.

Mussolini il 12 settembre è liberato a Campo Imperatore, sul Gran Sasso, da un commando di paracadutisti tedeschi che lo conduce in Germania. La notizia mette in agitazione la Milizia riminese: un suo reparto sfila velocemente per il corso d'Augusto. Il 18 Mussolini parla da Radio Monaco: "Sono sicuro che la riconoscerete: è la voce che vi ha chiamato a raccolta nei momenti difficili". È una voce stanca che aveva perso i toni abituali. Nasce la repubblica sociale italiana, la famigerata "repubblichina" di Salò. L'Italia è divisa in due. Al Nord ed al Centro, tedeschi e fascisti. Al Sud, il regno che ha per capitale Brindisi (e Salerno dall'11 febbraio 1944).

"Il fascismo della Repubblica sociale non fu un fenomeno marginale e neppure l'ultima impennata di un regime destinato a scomparire." [L. Klinkhammer]

I tedeschi fanno scuola ai ‘nuovi' fascisti di Salò: dal berretto nero (copiato da quello delle SS tedesche), fino alla ferocia dell'"occhio per occhio, pietà l'è morta", ed agli atteggiamenti contro gli ebrei: "Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica". Rispuntano i ras del terrorismo ad ogni costo. I tedeschi trattano i repubblichini con distacco. Non si fidano. E la gente? "Nessun popolo gradisce la presenza nei propri territori di forze armate straniere emananti decreti e ordinanze e esercenti atti di imperio": lo sostiene Mussolini sul Corriere della Sera.

La sera del 12 settembre, a Rimini, i repubblichini Paolo Tacchi, Perindo Buratti e Gualtiero Frontali s'incontrano nello studio di quest'ultimo in via Bonsi con un gruppo di antifascisti cittadini, in vista di un patto di non aggressione per evitare massacri "tra gli italiani". Racconterà Buratti: "Ci riunimmo per salvare Rimini dai tedeschi al di sopra delle inimicizie di parte, animati solo da amor di patria". Tacchi non ha mai parlato di quell'incontro, il cui spirito però lo si può dedurre da parole che lui stesso scrisse a proposito della costituzione del fascio repubblichino: "Difesa morale e materiale dell'Italia" soprattutto nei confronti dei tedeschi.

Il comunista Decio Mercanti ricorda che la riunione "venne indetta nell'intento di gettare le basi per la costituzione di un Comitato di Concordia tra fascisti e antifascisti", che "avrebbe dovuto portare alla pacificazione fra le due parti per impedire delle rappresaglie". Nei repubblichini forse agiva il ricordo di un'analoga iniziativa del 2 agosto 1921, quando Mussolini cercò invano di eliminare dal suo partito le punte estremistiche ed eversive dello squadrismo agrario, e propose un patto di pacificazione col partito socialista e con i sindacati, che durò soltanto fino a novembre.

L'atteggiamento conciliatorio dei repubblichini riminesi si ritrova anche in altre città. A Ferrara il federale Igino Ghisellini "propone un accordo con i partiti antifascisti" e "concorda una tregua tra le parti". La sua è una "posizione tollerante" che si scontra con la linea dura di Pavolini, Farinacci, Ricci e Mezzasoma. A rimetterci è lo stesso Ghisellini: egli avrebbe voluto portare al congresso del pfr a Verona (14 novembre '43) il suo progetto di pacificazione nazionale, di accordo con i partiti antifascisti e di tolleranza per i protagonisti del colpo di Stato del 25 luglio. Ma proprio quel 14 novembre Ghisellini è ucciso in modo misterioso. Viaggia in auto. Il suo corpo, trapassato da sei colpi di rivoltella, è trovato senza stivali e senza portafogli nella cunetta della strada provinciale che porta al paesino dov'era sfollato. L'assassinio è attribuito ai partigiani, anche se i carabinieri dimostrano che il federale è stato ucciso da qualcuno che viaggiava con lui. In seguito si diffonde la voce che Ghisellini è stato ammazzato dai suoi. Lo stesso 14 novembre avviene la vendetta nella città di Ghisellini, a Ferrara, con i tredici martiri del Castello.

Pagina tratta dal cap. II de "I giorni dell'ira. Settembre 1943 - settembre 1944 a Rimini e a San Marino".

Il 25 luglio a San Marino.
Quando la sera del 25 luglio 1943 alle 22.45 la Radio italiana annunciò la caduta di Mussolini, all'albergo Titano (noto covo dei fascisti sammarinesi), si svolgeva la solita partita a poker dei capi locali. Il segretario di Stato Giuliano Gozi "rimase tranquillissimo", mentre suo fratello Manlio (segretario del pfs) "fu colto da emozione".
Ricorda Federico Bigi che da Roma arrivò una telefonata del console sammarinese: Badoglio è nostro amico, non c'è nulla da temere. "La serata si chiuse con questo commento umoristico di Giuliano Gozi: 'Allora vorrà dire che a Palazzo al posto del duce metteremo il ritratto del maresciallo Badoglio'".
C'era poco da ridere, per la verità. Anche San Marino stava per cambiare aria. Ma non senza traumi. Anzi, la Repubblica dovrà vivere momenti assai dolorosi.
"L'ora della resa dei conti era giunta anche per questi parodianti buffoni, e vani risultarono gli espedienti posti in atto il giorno 26 luglio, colla pubblicazione di un manifesto della Reggenza del tempo, in cui alle suadenti e fraterne raccomandazioni di calma e disciplina, si aggiungevano minacce di applicare con rigore le leggi contro coloro che intendessero turbare l'ordine pubblico. Non mancava il pistolotto in elogio al Maresciallo Badoglio che lo si considerava un caldo amico della Repubblica. Questa ostentata premessa che mascherava una latente paura, non servì che a prolungare di poche ore la vita dell'infausto regime": è una testimonianza del dottor Alvaro Casali.
Gli antifascisti locali si riunirono subito a Rimini, il pomeriggio del 26, nell'ambulatorio dello stesso dott. Casali, un socialista che nel '40 era stato costretto ad emigrare in Francia, da dove era tornato dopo l'occupazione tedesca, aprendo due studi, uno a Borgo ed uno a Rimini.
Da quell'incontro, nasce il progetto di una manifestazione popolare che si tiene il 28 luglio al Teatro del Borgo, alla presenza di una folla strabocchevole.
La vedova del dott. Casali, Antonia Amadei, ricorda che da Borgomaggiore gli antifascisti in corteo salirono al Palazzo della Reggenza, "per chiedere le dimissioni del Governo e lo scioglimento del Consiglio fascista".
Il giorno prima, 27 luglio, era stato sciolto il partito fascista sammarinese. Nella riunione del 26 a Rimini, era nato il "Comitato per la libertà" che il 27 tiene una seconda riunione "nella quale si decise di rompere ogni indugio e di passar la sera stessa all'azione, soprattutto perché nella stessa mattina i fascisti di San Marino avevano assunto un atteggiamento di sfida ed avevano promesso, siccome il loro vecchio sistema, bastonate e piombo ai loro oppositori", si legge in un numero unico del Comitato stesso, edito il 3 settembre, con il titolo "28 luglio".
"La notte non si dormì", prosegue il foglio: "Giovani vibranti d'entusiasmo e di fede s'irradiarono per ogni frazione della Repubblica, chiamando a raccolta il popolo alla riscossa...". All'alba del 28, "una folla, forse non mai adunata nel nostro paese", invase "le anguste vie del Borgo, raggiante di sole e di gioia".
Campane a festa.
Il comizio di Borgo fu presieduto da Francesco Balsimelli che poi guidò il corteo assieme all'avv. Teodoro Lonfernini e ad Alvaro Casali.
"Si svolsero lunghe trattative dei dimostranti con i Capitani Reggenti che infine decretarono lo scioglimento del governo. A mezzogiorno fu costituito un governo provvisorio di venti membri, che nel pomeriggio fu poi allargato a trenta. Tra i quali mi ritrovai anch'io, ventitrenne", spiega Federico Bigi, noto esponente democristiano.
Suonarono a festa tutte le volta. Alla testa del corteo c'erano le bande musicali, racconta una cronaca del tempo, dove si legge anche che i fascisti sammarinesi si erano illusi di tenere il potere pure dopo il crollo di Mussolini.
Chi erano gli uomini del fascio sul Titano? "Praticamente... un unico personaggio con i suoi famigliari riassumeva tutti i poteri effettivi. Si tratta di Giuliano Gozi, al quale non si perdona d'esser stato accentratore assolutista, despota, segretario al Ministero degli Interni; egli assunse anche quello degli Esteri, vale a dire l'intero Gabinetto sammarinese che si compone appunto di due soli Ministri", prosegue quella cronaca.
Come un dittatore, "S.E. Gozi nominò vice cancelliere un suo cugino, Enrichetto Gozi, e Segretario del partito fascista sammarinese il fratello Manlio".
[Pagina tratta dal cap. II de "28 luglio 1943, San Marino volta pagina. I giorni dell'ira, 4. Settimanale "il Ponte", Rimini, 04.03.1990.]

Tuesday, January 08, 2013

Pascoli "latino" ritrovato


Per tredici volte, tra 1892 e 1912, Giovanni Pascoli vinse la medaglia d'oro al concorso annuale di poesia in latino di Amsterdam. La sua prima partecipazione risale al 1883, come testimonia la sorella Mariù, quando Zvanì si trovava a Matera.
Ora uno studioso italiano, Vincenzo Fera, è riuscito a recuperare i testi inviati da Pascoli al concorso di Amsterdam, compreso quello di Matera che Maria riteneva perduto.
Fera si è giovato dell'aiuto di un giovane paleografo olandese, dottore di ricerca all'Università di Messina, Xavier van Binnebeke, come si legge in un ampio servizio, firmato da Matteo Motolese, ed apparso sul supplemento culturale "Domenica" de "Il Sole 24 Ore" del 23 dicembre scorso.
Osserva Motolese che il rinvenimento dei lavori pascoliani è "una scoperta destinata a cambiare profondamente gli studi in questo settore", permettendo di mettere a fuoco "il percorso di composizione dei vari poemetti".
Dall'archivio Noord Hollands di Haarlem, sono emersi anche particolari curiosi che svelano la psicologia del poeta di San Mauro. Per non essere identificato attraverso la sua grafia, inviando composizioni ogni anno e talora più lavori contemporaneamente, Pascoli "faceva copiare alcuni poemetti dalle sorelle, così da rivelare la propria identità soltanto nel biglietto sigillato che accompagnava il testo". Infatti, come spiega Motolese, i componimenti "dovevano giungere in forma anonima, con il nome dell'autore indicato in una busta separata e sigillata.
Sulle stesse colonne di "Domenica", lo scorso 5 aprile, Guido De Franceschi chiudeva una biografia di Pascoli, citando il suo aspetto più dimenticato, appunto quello di autore di poesie in latino, “a cui dedicò molte delle sue energie e che furono poi volte in italiano da Manara Valgimigli”. Significativo il giudizio espresso: “Pascoli non si limitò a rimasticare in versi le sue letture dei classici, né si esercitò in un'arida attività da bricoleur combinando lacerti di passi antichi, ma riuscì a insufflare abbastanza vita in una lingua morta da essere stato ampiamente riconosciuto come il massimo autore in latino dell'età moderna”.
Il ricordo dell’antica cultura, spiega De Franceschi, si trova pure nelle poesie in lingua italiana dei "Poemi conviviali", talora attaccati dalla critica con giudizi spesso dati a naso storto, come nel caso di Giuseppe Prezzolini. Secondo De Franceschi invece i "Poemi conviviali" permettono una conoscenza più profonda di Pascoli, ricalcando essi “le orme della poesia greca e orientale”.

Antonio Montanari
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"il Ponte", settimanale, Rimini, 13.01.2013

Wednesday, September 12, 2012

La casa degli immigrati

Nel suo blog, lo scorso giugno la scrittrice riminese Anna Rosa Balducci ha raccontato una scena inquietante vissuta in prima persona, con lei costretta ad intervenire presso una pattuglia di Polizia per evitare “un pestaggio in piena regola”.
C'è “un gazebo occupato nottetempo da giovani stranieri con sacchi di cianfrusaglie e forse oggetti personali”. C'è l'agente “nervoso, gonfio di muscoli, con una inquietante testa rasata” che inveisce contro di lei che protesta. C'è l'altro poliziotto “più calmo” che interviene e fa cessare l'azione.
Adesso lo stesso mondo doloroso dell'immigrazione, lo ritroviamo nell'ultima prova narrativa di Anna Rosa Balducci, “La casa color grigioperla” (Ed. Progetto Cultura, Roma).
Dove si racconta una storia d'ordinaria vita di quindici persone fuggite verso l'Europa per trovare salvezza e futuro: due donne e due uomini vecchi, “i quattro giovani, di cui uno più serio e distinto, l'altro che si intendeva legato alla donna più giovane, sicuramente lo sposo di lei”. E poi un'altra donna giovane e cinque bambini, due femmine e tre maschi.
L'esperienza narrativa di Anna Rosa Balducci sconvolge la trama con l'intervento di più narratori. C'è quello che racconta gli eventi da fuori, poi un uomo giovane che appartiene ai profughi, ed infine un bambino dello stesso gruppo di profughi.
L'autrice a metà del lavoro dialoga con “il solito osservatore” che parla di una storia noiosa, di retorica dei buoni sentimenti, e ricostruisce la trama nascosta degli antefatti, avviando una specie di labirinto narrativo che serve a testimoniare di un semplice fatto, ovvero della complessità delle vicende vissute da questi sconosciuti. Che agli occhi della gente appaiono soltanto dei soggetti pericolosi da cacciare dalla casa in cui hanno trovato rifugio. [09.09.2012]
Antonio Montanari

Thursday, April 21, 2011

Carta canta. Rimini e il turismo


Il ruolo di Rimini nell'industria dell'ospitalità è bene illustrato dalla prof. Annunziata Berrino, docente di Storia Contemporanea alla Università Federico II di Napoli, nella sua "Storia del turismo in Italia" (Bologna 2011). C'è lo stabilimento dei conti Baldini, finanziato dalla Cassa di risparmio di Faenza, 1843. Ci sono gli investimenti pubblici (1873) voluti da "un influente gruppo di proprietari-consiglieri, che riesce a scaricare sul bilancio comunale i rischi di un investimento che appare ai privati ancora troppo rischioso".
Il Comune ha gravi perdite. Si favorisce soltanto la ricchezza privata. Nel 1890 si incentivano i villini economici. La gente arriva non più per curarsi al mare, ma per divertirsi in Riviera. Agli inizi del 1900 Rimini domina l'Adriatico, mentre Viareggio regna sul Tirreno.
Nel 1931 il mitico podestà Pietro Palloni scrive al sottosegretario agli Interni, Leandro Arpinati, un ex operaio anarchico di Bologna, "una lettera lucidissima e drammatica": in Italia manca qualsiasi intervento dello Stato nella propaganda e valorizzazione delle stazioni turistiche comunali.
Il tema era allora molto discusso. Lo ha affrontato nel maggio 1928 e nel dicembre 1930 Valfredo Montanari sulla rivista "Turismo d'Italia", come si legge in un altro lavoro della prof. Berrino, relativo alla nascita delle Aziende di Soggiorno (1926), pubblicato da "Storia del turismo. Annale 2004" (Milano 2005).
Il podestà Palloni è nominato il 18 aprile 1929. Il 10 febbraio 1930 Valfredo Montanari prende servizio al Comune di Rimini come Capo Ufficio ai Servizi Balneari e Contabilità dell'Azienda di Cura, con delibera podestarile del 20 gennaio 1930.
Il ruolo di studioso del turismo svolto da Valfredo Montanari (1901-1974) negli anni Trenta, emerge anche da un testo apparso nel 1997 in Finlandia (a cura di Taina Syrjämaa, "Visitez l'Italie. Italian State Tourist Propaganda Abroad 1919-1943. Administrative Structure and Practical Realization"). Dove si cita un suo articolo del 1933 dedicato a "La pubblicità collettiva". Taina Syrjämaa appartiene alla "School of History, University of Turku". Il suo libro ha avuto sei edizioni. Per il 2011 Turku è una della capitali europee della cultura.
Il volume di Berrino parte dai viaggiatori del 1800 e si conclude con un accenno alla crisi del modello turistico romagnolo, ed alla nascita del divertimentificio, citando un testo di P. Battilani del 2002: il rumore soppianta la vacanza tranquilla.

Antonio Montanari
(c) RIPRODUZIONE RISERVATA

Tuesday, December 28, 2010

Benno trascurato

Mi è appena giunto il primo volume della "Storia della Chiesa riminese", intitolato "Dalle origini all'anno Mille".
Sfoglio alcune sezioni più legate ai miei studi, e cerco una citazione "politica" per Benno...
La trovo a p. 65 nel saggio di Raffaele Savigni, professore associato di Storia medievale.
Qui si parla di "Bennone figlio di Vitaliano detto Bennio, che nel 1014 dona al figlio Pietro il castello di Morciano", e lo si dichiara "un importante esponente del ceto dirigente riminese, definito da Pier Damiani decus regni, pater patriae, lux Italiae".

Chiudiamo il libro e torniamo all'argomento.
Benno (il padre) muore nel 1061. Nel 1061 avviene pure la fondazione, da parte di Pier Damiani, del monastero intitolato a san Gregorio e posto nel territorio riminese, in località detta Morciano.
Ma c'è qualcosa d'altro che nel volume non si cita: Benno è dato da Pier Damiani per ucciso nel corso di una «guerra»: «lui, per merito del quale fiorì la pace», fu forse vittima di una lotta sulla cui origine possono essere avanzate soltanto alcune ipotesi connesse al ruolo politico svolto dallo stesso Benno.

Per chiarire le cose, ripubblico un mio articolo del 1983, facendolo precedere da un riassunto apparso sul Corriere Romagna il 26 aprile 2007.
Da essi appare evidente che la figura di Pietro Pennone neppure questa volta ha ricevuto il risalto che merita nella storia "civile" e della Chiesa riminese.

Nel mio articolo del 1983, riprendevo quanto nel 1965 Scevola Mariotti suggeriva, interpretando in modo nuovo il carme XCIX di Pier Damiani, al v. 12 edito come "per quem pax viguit, bellica sors perimit", anziché "bellica sors periit", per cui abbiamo: "la guerra uccise colui per merito del quale fiorì la pace", anziché "per lui fiorì la pace, la guerra cessò".
Scevola Mariotti aggiungeva: "Quindi, a quanto pare, Bennone fu ucciso in un fatto di guerra". Questo testo di Scevola Mariotti è stato da me citato nella nota 70 di p. 99 della "Storia di Rimino" di Antonio Bianchi (Rimini, 1997).
Di Benno ho parlato nel 2010 in un articolo pubblicato sul "Ponte" di Rimini il 24 febbraio, intitolato "Le carte segrete di Scolca", in cui si legge:
"Pier Damiani è molto citato e poco letto. Nel 1069 Pietro Bennone gli dona vasti possedimenti (poi passati a Scolca) per l'abbazia di San Gregorio in Conca di Morciano da lui fondata nel 1061. Bennone è figlio di Benno, grande feudatario e uomo politico di Rimini. Pier Damiani compiange la morte di Benno (1061) in un carme, definendolo "padre della Patria, luce dell'Italia".
Il "padre della Patria" o della città (come scrissi su "il Ponte" del 12.06.1983), è il rappresentante della vita municipale che doveva vegliare alla difesa del Comune sotto il dominio della Chiesa. Una figura ben distinta dal conte, delegato pontificio od imperiale. Uomo giusto e pio, severo con gli oppositori ma dolce con gli indifesi, Benno è dato da Pier Damiani per ucciso nel corso di una "guerra": "lui, per merito del quale fiorì la pace".
La morte di Benno è una pagina (chissà perché) trascurata dagli storici ufficiali, ma capace di illuminare fondamentali vicende cittadine dei "secoli bui"."

I documento
San Pier Damiani tra Morciano e Rimini
Il ricordo di san Pier Damiani organizzato a Morciano (27-29 aprile 2007) nel millenario della nascita, riguarda anche Rimini. Dove abitava la famiglia dei Bennoni che gli fece varie donazioni tra cui quella della terra su cui fu fondata, nel 1061 dallo stesso Pier Damiani, l'abbazia di san Gregorio in Conca a Morciano.
Il padre Benno era un grande feudatario, proprietario di vaste estensioni di terreni. Sua moglie Armingarda gli aveva recato in dote altre proprietà fondiarie. Dal loro matrimonio nacquero tre figli. Uno soltanto, Pietro Bennone, sopravvisse al padre. I territori assoggettati al loro controllo o di loro proprietà s'estendevano tra Rimini, l'entroterra riminese e quello marchigiano.
Quando Benno morì nello stesso 1061, fu ricordato da Pier Damiani in un carme. Benno vi è definito «onore del regno, e gloria della stirpe romana, padre della Patria, luce dell'Italia». Padre della Patria o della città era chiamato il rappresentante della vita municipale che doveva vegliare alla difesa del Comune sotto il dominio della Chiesa romana. Era una figura ben distinta dal conte che era un delegato pontificio od imperiale.
Uomo giusto e pio, severo con gli oppositori ma dolce con gli indifesi, Benno è dato da Pier Damiani per ucciso nel corso di una «guerra»: «lui, per merito del quale fiorì la pace», fu forse vittima di una lotta sulla cui origine possono essere avanzate soltanto ipotesi connesse al ruolo politico svolto dallo stesso Benno.
Uomo di fede e difensore degli interessi della Chiesa (altrimenti Pier Damiani non l'avrebbe glorificato), mentre la feudalità laica mirava ad una sostanziale autonomia politica ed aumentavano i sostenitori dell'indipendenza cittadina, Benno probabilmente non riuscì a pervenire ad una sintesi originale tra mondo laico ed ecclesiastico, per conciliare gli interessi «particulari» cioè cittadini con quelli della sede di Pietro.
I riminesi possono aver visto in Benno un capo che finiva per essere più il rappresentante del pontefice (come il conte) che della loro comunità. E quindi possono aver cessato di considerarlo come un'espressione della giustizia e dell'equilibrio nei rapporti fra la città e Roma. Nell'additarlo pubblicamente come traditore, sarebbe stata così scritta la sua condanna a morte. [Antonio Montanari, 2007]

II documento
Pier Damiani e Benno, vicende politiche
a Rimini a metà dell'XI secolo

La famiglia riminese dei Bennoni fece a varie riprese donazioni a Pier Damiani, fondatore dell'abbazia di san Gregorio in Conca di Morciano.
I componenti della famiglia dei Bennoni sono citati ripetutamente ed in modo sparso sia nei documenti medievali sia in opere di studiosi riminesi del XVII e XVIII secolo. Il ruolo politico svolto dai Bennoni nel nostro territorio va collocato nel contesto "internazionale" che vede la rinascita economica, la crisi del sistema feudale e la riscossa spirituale della Chiesa.

Il contesto
La rinascita economica in sede locale è testimoniata dalla costruzione del nuovo porto del Marecchia (1059) e dall'allargamento della cinta muraria.
La crisi del sistema feudale è ravvisabile nella posizione di autonomia di Rimini nei confronti dell'arcivescovo di Ravenna al quale spettava, per volere degli imperatori tedeschi, una specie di principato ecclesiastico anche sulla nostra città.
Infine, la riscossa della Chiesa è attestata dalla fioritura di iniziative tra le quali va annoverata nel 1061 la fondazione, da parte di Pier Damiani, del monastero intitolato a san Gregorio e posto «nel territorio riminese, in località che è detta Morciano».

La famiglia dei Bennoni
Sullo sfondo di tutte queste situazioni e vicende si colloca la storia della famiglia riminese dei Bennoni.
Il padre, Benno «venerabile figlio del fu Vitaliano Benno», era un grande feudatario, proprietario di vaste estensioni di terre.
Sua moglie Armingarda, «figlia del defunto illustre signore Tebaldo», gli aveva recato in dote altre proprietà fondiarie.
Dal loro matrimonio nacquero tre figli. Uno soltanto, Pietro Bennone, sopravvisse al padre.

I loro territori
I territori assoggettati al loro controllo o di loro proprietà s'estendevano tra Rimini, l'entroterra riminese e quello marchigiano.
Benno prima e poi Armingarda fecero donazioni a Pier Damiani per il monastero di san Gregorio, sorto così in terra appartenuta alla famiglia riminese.

Ruoli pubblici
Dagli atti, sappiamo che sia Benno sia Pietro Bennone, suo figlio, furono tra i cittadini nobili ed importanti, non soltanto grazie alla loro rilevanza economica bensì anche per la partecipazione alla vita pubblica della nostra città.
Quando Benno morì nel 1061, fu ricordato da Pier Damiani in un carme in sua memoria. In esso Benno è definito «onore del regno, e gloria della stirpe romana, padre della Patria, luce dell'Italia».

Pier Damiani
Nel tono di commossa esaltazione usato da Pier Damiani per commemorare l'amico scomparso, non c'era soltanto la gratitudine per la donazione ricevuta, bensì pure (e l'uso della definizione di «padre della Patria» lo conferma), la descrizione del ruolo politico e civile svolto da Benno in Rimini.
Padre della Patria o della città era chiamato il rappresentante della vita municipale che doveva vegliare alla difesa del Comune sotto il dominio della Chiesa romana. Era una figura ben distinta dal conte che era un delegato pontificio od imperiale.
Uomo giusto e pio, severo con gli oppositori ma dolce con gli indifesi, Benno è dato da Pier Damiani per ucciso nel corso di una «guerra»: «lui, per merito del quale fiorì la pace», fu forse vittima di una lotta sulla cui origine possono essere avanzate soltanto alcune ipotesi connesse al ruolo politico svolto dallo stesso Benno.

Benno, una condanna a morte
Uomo di fede e difensore degli interessi della Chiesa (altrimenti Pier Damiani non l'avrebbe glorificato), mentre la feudalità laica mirava ad una sostanziale autonomia politica ed aumentavano i sostenitori dell'indipendenza cittadina, Benno probabilmente non riuscì a pervenire ad una sintesi originale tra mondo laico ed ecclesiastico che potesse conciliare gli interessi «particulari» cioè cittadini con quelli della sede di Pietro. Per cui i riminesi possono aver visto in Benno un capo che finiva per essere più il rappresentante del pontefice (come il conte) che della loro comunità. E quindi possono aver cessato di considerarlo come un'espressione della giustizia e dell'equilibrio nei rapporti fra la città e Roma.
Nell'additarlo pubblicamente come un traditore, si sarebbe così cominciato a scrivere la sua condanna a morte. Portata ad esecuzione nell'anno stesso della fondazione del monastero di San Gregorio, il 1061.
Rimangono molti dubbi sulla figura e sull'opera di Benno, così come resta probabile il fatto che la sua vicenda possa rappresentare una tappa nella trasformazione della realtà locale della Romagna nell'XI secolo.
La morte violenta di Benno potrebbe inserirsi nella serie di azioni che precedono la nascita del Comune, e testimonierebbe una serie di fermenti che coinvolsero la Chiesa, l'impero e la realtà cittadina. [Antonio Montanari, «IL PONTE», n. 22, 12 giugno 1983]

Sunday, September 12, 2010

Rimini 150. In poche parole

2. Folla

Alla folla oceanica del fascismo si arriva dopo la "grande guerra". I marinai sono i primi a rimetterci. Tra i più anziani c'è chi distrugge «quei trabaccoli la cui costruzione era costata lunga fatica e penosi sacrifici» (G. Facchinetti).

Il biennio 1919-1920 passa fra bandiere rosse, camicie nere ed occupazioni contadine delle terre.
Lo sciopero generale (1919) per il «poco pane» avviato dai ferrovieri, costringe il Comune a dimezzare i prezzi di tutti i prodotti.

I proprietari fondiari non accettano di riformare il patto colonico. I contadini iniziano (luglio 1920) lo «sciopero delle vacche», durato otto giorni. Le portano dalle campagne ai padroni.

Durante lo sciopero generale del primo luglio 1920 un possidente di San Lorenzo in Strada, Secondo Clementoni (44 anni), è ucciso. Tre anni dopo stessa sorte per suo figlio Pietro (23), ex presidente della locale cooperativa 'bianca' di consumo.

La Sinistra vince le elezioni comunali (17.10.1920). Arriva il «biennio nero» 1921-22 con lo squadrismo giustificato da «L'Ausa» (organo dei popolari di don Sturzo): «Le oppressioni selvagge e vigliacche dei socialisti non si contano più. Con questi degenerati bisogna tornare al medio evo ed instaurare la legge del taglione».

Il movimento fascista nasce ufficialmente in un albergo di piazza Cavour (24.4.1921). Il giorno prima su «L'Ausa» un articolo firmato G. (don Domenico Garattoni?) incensa il santo manganello: «La violenza fascista ha portato realmente un grande bene alla Nazione, purificando l'aria dai pestiferi bacilli rossi».

Il foglio socialista «Germinal» ha anticipato (24.12.1920) la costituzione del fascio, descrivendo «un gran daffare tra i figli di papà mangiasocialisti di Rimini e qualche pezzo grosso del fascismo forestiero», non esclusi alcuni reazionari di San Marino.
A Serravalle prima delle elezioni politiche del 15 maggio 1921 avviene il ferimento mortale del dottor Carlo Bosi. Che era con il figlio Vittorio, noto squadrista, vero obiettivo dell'agguato.

Dalle urne locali escono primi i socialisti con 2.528 voti in meno. I comunisti al debutto ne prendono 2.198. I popolari 4.560 (+1.120 sul 1919).
Il 19 maggio 1921 è ucciso Luigi Platania (31 anni). Anarchico, fondatore dei fasci, combattente in Libia ed interventista andato al fronte, ha fatto pure la «settimana rossa». Quando fu sospettato del furto di una cassaforte assieme a Carlo Ciavatti, al quale avrebbe sottratto parte del bottino. Ricevendone una minaccia che a Ciavatti costa 14 anni di galera.

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