Saturday, September 20, 2008


il Rimino - Riministoria

MARINERIA E SOCIETÀ RIMINESE (1700-1800)
Relazione presentata al Convegno su Giuseppe Giulietti,
Rimini, 21 giugno 2003

Nel corso del 1700 e per la prima metà del 1800 nella vita sociale di Rimini, la Marineria gioca un ruolo molto importante, a cui però non corrispondono né una soddisfacente condizione economica, né un qualsiasi coinvolgimento nella gestione della cosa pubblica.
Nel 1791 Francesco Battaglini scrive che alla «classe marinaresca tanto utile alla Città nostra, e nel tempo stesso sì grama, e misera», fanno capo «a dir poco» duemila persone.
Cinque anni dopo, nel 1796, un documento ufficiale della Municipalità riminese calcola questa classe in «circa tre mila Persone», quasi un quarto degli abitanti della città. Faticosamente, dopo l’armistizio del 23 giugno dello stesso 1796, la Municipalità riminese ha impedito «l’emigrazione di molti abitanti del Porto».
Nel 1835 «Naviganti e Pescatori» attestano che la «numerevole marina» del nostro Porto è «forte di tremila e trecento anime tutto compreso, tanto naviganti che peschereccia». Cessato ogni commercio e resosi «scarsissimo il pesce» (essi scrivono alla Segreteria di Stato), «languiscono e moion di fame sì i Naviganti, che i Pescatori colle innocenti numerevoli loro Famiglie»: sono «gente buona sì, ma rozza, impetuosa, ed amareggiata da una miseria, che quasi la sospinge alla disperazione».
1843: la «classe infelice» e «numerosa de’ Marinai, e Calafati non che Commercianti» si dichiara costituire «una quarta parte della Popolazione» riminese. [B 684]
1856: «più di cinque mila persone» sono «dedite specialmente ai negozi marittimi d’ogni specie». Lettera del Gonfaloniere di Rimini all’ingegner Maurizio Brighenti (autore di un progetto di rinnovamento del canale).
1857: risultano 908 addetti per 199 navigli (23 capitani mercantili, 65 «paroni di piccolo corso» ed 820 marinai in genere).
1861: 1.659 addetti (1.165 per il commercio e 494 per la pesca) per 123 navigli (46 da commercio e 77 da pesca).
Commercio: 27 capitani, 108 padroni, 730 marinari, 300 mozzi.
Pesca: 90 padroni, 334 marinai, 70 mozzi.

Ad una famiglia di miseri pescatori appartiene Giulietti che nasce nel 1879, sul finire di un secolo in cui le cose non mutano granché rispetto al Settecento, come non muteranno neppure all’inizio di quello successivo, secondo quanto testimonia il deputato liberale Gaetano Facchinetti a proposito degli eventi bellici del 1915, annotando che essi colpirono gravemente «la numerosa e povera classe marinara».
Nella catena delle forze sociali che vivono all’interno dell’«antico regime», la «classe marinara» costituisce l’anello più debole. Essa però è ugualmente temuta, come ricaviamo da una lettera del 14 luglio 1796 (dopo l’apparire dei Francesi in Romagna), in cui la Municipalità scrive al Legato, che questa «classe marinara» è non soltanto «numerosa», ma anche «poco docile».
E «poco docile» essa si è già dimostrata il 26 aprile 1768, organizzando «un terribile tumulto» contro Serafino Calindri ed il suo progetto di espurgazione del canale. Calindri se ne era andato da Rimini temendo che un bandito (il «noto Brugiaferro»), fosse stato assoldato per toglierlo dalla circolazione, allo scopo di favorire il prolungamento dei moli proposto dal medico Giovanni Bianchi, nume tutelare della cultura e della scienza riminese. Sono questi gli anni in cui padre Boscovich definisce il porto «massima risorsa» della nostra città.
Ma «poco docile» la classe marinara appare anche nelle questioni che oggi chiameremmo sindacali, quando si tratta di difendere i diritti dei lavoratori nei confronti dei «Padroni» delle Barche che, ad esempio, somministravano ai loro marinai cattivo vitto e «vino corrotto».
«Padroni» sono detti non i proprietari, ma i «Conduttori» della barche. Non sempre i «Padroni» sono anche proprietari delle barche. Ad investire nell’ambiente del porto, oltre ai commercianti, figurano pure nobili cittadini che «impiegano vistose somme di denaro in crediti, cambi marittimi e nell’acquisto di barche».
Fra questi nobili troviamo Nicola Martinelli, il quale, seguendo le teorie di Cesare Beccaria, si batte per la libertà di panizzazione, e si oppone a Francesco Battaglini che sostiene invece il sistema pubblico dell’Annona. La famiglia Martinelli inoltre possedeva 21 case nel Borgo San Giuliano.
Un «Padrone», per farsi la barca, deve indebitarsi per un periodo così lungo che normalmente coincide con quasi tutta la durata della barca stessa, che è di dieci-quindici anni. Il povero pescatore, si scrive nel 1869 in un documento ufficiale, consuma tutta la sua vita «sempre in debito ed a vantaggio di quattro vampiri: costruttore, fabbro-ferraio, cordaio e venditore di pesce».
Il «Padrone», nell’ingaggiare i marinai della sua ciurma, deve rispettare alcune regole che la Municipalità impone nel 1745 con i «Capitoli del Porto», seguendo l’«inveterato stile» comunemente osservato. Sono regole che costituiscono una specie di contratto collettivo di lavoro. Nel periodo che va da dopo le «Feste di Natale» sino a Pasqua, il Conduttore non può licenziare gli uomini della barca «senza legittima causa da riconoscersi dal Signor Capitano» del Porto, sotto pena del pagamento dei danni da calcolarsi «secondo il guadagno della Barca». In caso di malattia, sia al «Patron conduttore» sia a qualsiasi «Uomo di Barca», è garantita «almeno per un Mese» la solita parte di guadagno.
A proposito dell’«inveterato stile» comunemente osservato, riporto un episodio del luglio 1804: «due Barche Pescareccie di questo Porto» sono «fatte preda di un Corsaro Inglese», e di conseguenze trenta marinai restano senza lavoro. Con una petizione alla Municipalità, essi chiedono ai «Patronati di Barche» di anticipare di due o tre mesi il «costume di aumentare un uomo per Barcha prima che entri la nuova stagione», che iniziava a novembre. La Municipalità immediatamente sollecita i proprietari ad anticipare questo «solito aumento di un uomo per Barca».
I pescatori sono più tutelati dei lavoratori dei campi, duramente colpiti dalla carestia che si sviluppa pure a Rimini tra 1765 e 1768: molti di loro fuggono a Roma, ospitati a spese dell’Erario in due «serragli», in mezzo ad un’epidemia di vaiolo. In questa «miserabile città», scrive il cronista Ubaldo Marchi nel 1767, i marinai sono «in molto gran numero» e lavorano su 40 barche pescarecce; tremila sono invece i poveri che campano «con cercare elemosina».
Un altro cronista cittadino, Ernesto Capobelli, scrive che «il Pontefice non pensò a solevar in conto alcuno li suoi sudditi, dispensò soltanto tesori spirituali». La Congregazione del Buon Governo nel 1767 fa sapere ai riminesi che con «Erbaggi e Frutti» si poteva supplire «a qualche defi-cienza di Pane».
Certamente la nostra marineria non era come il popolo romano durante la carestia, descrittoci da un abate francese, Gabriel François Coyer: «bien dévot, bien soumis», esso si riuniva soltanto «pour faire des processions et pour gagner des indulgences sous le doigt de Sa Sainteté».
Alla carestia, il 22 luglio 1765 si aggiunge l’alluvione del Marecchia che porta all’«ultima rovina» il porto canale.
Nel 1799 la marineria riminese dimostra tutta la rabbia accumulata in molti decenni di sofferenze. Prima mette in fuga i soldati francesi dopo l’arrivo degli austriaci. Poi, seguìta dai «villani» dei dintorni, organizza una sommossa lunga e violenta che subentra alle devastazioni, alle prepotenze, agli abusi dei napoleonici.
I ripetuti e severi proclami degli austriaci, lasciano il tempo che trovano. Dal 30 maggio 1799 al 13 gennaio 1800, la Municipalità riminese vive una crisi istituzionale che non è una insorgenza a favore del Papato. Gli umori popolari sono ben riassunti da un sonetto anonimo in cui Roma è definita «infame», e si inneggia agli austriaci. I quali innalzano le insegne, care ai reazionari, dell’aquila imperiale e dell’«amore della Santa Fede».
I rivoltosi saccheggiano le botteghe degli Ebrei, assaltano il Palazzo Publico, dove rubano «tutto quello che vi era», dopo aver «rotto ogni cosa». Arrestano, incarcerano, mandano in esilio.
Entrati nella Guardia Civica, i marinai fanno da pompieri e da incendiari. Il loro comandante Lorenzo Garampi ne approfitta per tentare di dominare sulla città, favorito dal fatto che agli austriaci sfugge il controllo di una situazione in continuo fermento. I marinai tentano di sistemare anche Lorenzo Garampi che per salvarsi, il 27 agosto in cattedrale durante una «sanguinosa zuffa», è costretto a rifugiarsi sul campanile.
Per tutto il Settecento i «Poveri Pescatori» tentano di migliorare le loro condizioni. A Roma trovano più ascolto che a Rimini, dove negano la loro miseria in base a due argomenti: essi si costruiscono case, e le loro mogli vanno «come tutto dì si vedono, tanto pompose».
Nel 1787 in via provvisoria, e nel 1791 definitivamente, al posto del dazio del 15 per cento «del Prezzo ricavato» dalla vendita del pesce, subentra una tassa annuale sulle barche, suddivise in sei categorie. L’accordo finale approvato dal Legato, è firmato il 20 giugno 1792 come Transazione, e amichevole composizione fra Comunità riminese e Procuratore dell’Arte della Pesca a nome dei suoi iscritti.
La Municipalità per difendere il dazio del 15 per cento, ha sostenuto che esso normalmente dall’appaltatore era ridotto all’otto, e che se i pescatori guadagnavano poco, la colpa era soltanto dei rivenditori del pesce, i cosiddetti «porzionevoli», che formavano società fra loro per esportare al prezzo più vantaggioso il pesce a Bologna ed in Toscana. Questo fatto diminuiva il «frutto de’ sudori, e pericoli degli infelici Pescatori». E lasciava Rimini senza pesce, o lo faceva pagare ad un prezzo maggiorato di un terzo.
Nel 1805, secondo un testo ufficiale, nel porto di Rimini sono attive 104 barche con 780 marinai: settanta sono da pesca con 480 marinai, e trentaquattro da traffico con 300 addetti. In un anno nel nostro porto «entrano più di 400 bastimenti carichi di varie mercanzie e generi, e ne partono altri quattrocento carichi di effetti del Paese e dell’Estero». Per questa sua situazione, si sottolinea, Rimini meriterebbe di ottenere il «Porto Franco».
L’indotto è costituito da un cantiere senza loggiato, dove non è possibile lavorare nei mesi invernali; da fabbriche di cordami; e dalla manifattura della cotonina per le vele (con 300 donne impiegate annualmente).
Esistono poi a Rimini buone fabbriche di concia di pelle, di vetri e cristalli a uso di Venezia, di ombrelle di tela cerata, di cappelli fini a uso di Germania, ed «un considerevole lavoro di seta greggia». Si fanno «paste di frumento a uso di Genova» ed il «Biscotto pei Marinai».
Questo «Biscotto» è un tipo di «pane par-ticolare per gusto, e per la forma», che i marinai «trasportano in Mare», ed è diverso da quello spacciato dall’Annona che «non può resistere ai dieci, o dodici giorni di navigazione».
Il 5 dicembre 1799 all’Annona era stata imposta dalla Reggenza municipale la fabbricazione provvisoria di una «terza qualità» di pane ad uso esclusivo della Marineria, «fra il Bianco, ed il Bruno», che è migliore del «Bruno», richiede una maggior cottura, ed ha «il sale, che vi occorre uniformemente a quello che sogliono fare in casa» gli stessi marinai. Esso poteva essere spacciato soltanto alle «Porte di S. Giuliano, e di Marina in Città».
Peggio se la passano gli altri cittadini. Due anni dopo, nel 1801 il medico Michele Rosa illustra il modo di rendere commestibile la ghianda, ed un panettiere lo mette subito in pratica ottenendo un’entusiastica approvazione da parte della Municipalità.
Nel 1816, racconta Carlo Tonini, avvengono tumulti cittadini contro l’aumento del prezzo del frumento, con la partecipazione «di villani e di marinai, ai quali ultimi dalla stagione burrascosa e imperversante era impedito il rimettersi in mare». I «sedizioni del porto» hanno anche un cannone levato da una loro barca, con il quale entrano in città, e che puntano da sotto la statua di Paolo V «contro la scala del palazzo consolare». Una trattativa e la promessa di diminuire il prezzo del grano, fanno rientrare i marinai nel porto, assieme alla loro bocca da fuoco, mentre il vescovo li benedice da palazzo Garampi.
Nel 1817, l’11 aprile, per «improvvisa, e gagliardissima burrasca», affondano quattro «baragozzi da pesca», e perdono la vita 25 «individui di mare»: ventritré famiglie restano «nella massima desolazione e miseria».
Se nella seconda metà del 1700 il numero delle barche pescarecce aumenta del 128 per cento, a cavallo dei due secoli c’è un calo del 15 per cento. Segue fino al 1836 una risalita del 36 per cento, a cui subentra un calo di quasi il 50 per cento sino al 1869, quando la flotta pescareccia torna con 51 barche al livello di un secolo prima (1773). Il declino continua se nel 1902 le barche sono soltanto 46.
Nel giro di un secolo, dal 1805 al 1902, la forza lavoro passa da 480 marinai a 280, cioè ad oltre un 41 per cento in meno.
A metà della crisi, nel 1864, Luigi Tonini censisce 5.284 riminesi «portolotti», cioè pescatori, naviganti, calafati, commercianti, industrianti ed i componenti i loro nuclei famigliari. Sono poco meno di un terzo della popolazione urbana complessiva (rioni di città e borghi), «che nel 1862 ascendeva a 16.874 anime». I pescatori risultano 419, i naviganti 458. I pescatori e le loro famiglie sono soltanto mille persone, un terzo di quanto erano sul finire del secolo precedente. I naviganti e famiglie arrivano a 1.823 unità.
I «portolotti» abitano prevalentemente, ma non soltanto, nei Borghi Marina e San Giuliano, ed anche in zone lontane dal mare.
Le imprese che abbiamo incontrato nel documento del 1805, hanno dimensioni molto ridotte: da altra fonte del 1812, ricaviamo che appaiono consistenti soltanto il filatoio di seta con 66 dipendenti e due fabbriche di vetri e cristalli con 49. Nel 1824 «la fabbricazione delle vele di canapa e cotone risulta quasi totalmente abbandonata»: vi provvedono con lavoro a domicilio circa 70 donne per quelle di canapa; e 30 per quelle di cotone, contro le 300 impiegate nel 1805.
Nel 1840 la più grossa fabbrica di Rimini è quella dei fiammiferi di sicurezza Ghetti (1837 c.), con 300 donne e 50 uomini.
Nel 1818 la tassa d’ancoraggio per le barche è raddoppiata rispetto al 1796. Il 1829 è una «calamitosa annata» per la pesca. Il papa concede un «caritatevole sussidio di scudi 1.000» che però non si sa come distribuire, mentre si confida che «cessato il vento i pescatori andranno in Mare» a guadagnarsi da vivere perché quel sussidio risulta inadeguato alla necessità.
Dal 1836 il «Legato» del conte Giacinto Martinelli bonae memoriae benefica annualmente con 200 scudi i «Marinai di questo Porto, quivi nati, e domiciliati, vecchi oltre l’età di cinquanta anni, miserabili, ed invalidi».
A questo lascito nel 1877 si aggiunge quello (più sostanzioso, mille scudi) di Giambattista Soardi. Dal 1883 entrambi i «legati» sono trasformati in opere pie che l’anno successivo sono riconosciute come enti morali dal re d’Italia Umberto.
La situazione idraulica del nostro canale rende «poco servibile il porto», reca «danno al commercio» e mette «in crisi l’attività delle costruzioni marittime». A questa situazione negativa si cerca di porre rimedio tra 1842 e ’63 con un duplice prolungamento dei moli secondo la ricetta settecentesca dal medico Giovanni Bianchi, per complessivi 328 metri a Levante e 373 a Ponente.
Nel frattempo (1843), nasce l’industria turistica balneare su cui s’indirizzano gli interessi e le cure della classe dirigente locale, a danno delle attività portuali, per le quali mancano gli investimenti necessari. Ed il rinnovato e restaurato Porto Corsini di Ravenna dal 1870 toglie a quello di Rimini il primato che aveva nel tratto di costa fra Venezia ed Ancona.
Nel 1859 inoltre il porto di Rimini è stato declassato a semplice Commissariato di prima classe da Capoluogo di circondario marittimo che era dal 1803. Il nuovo Capoluogo è Ravenna. Nel 1843 il nostro porto era stato dichiarato «scalo di merci per la Toscana». Quando passa da Rimini alla fine del 1860 il re Vittorio Emanuele, una commissione gli consegna un foglio «per il Porto».
Più che la crisi del porto e della marineria, è stato scritto, è l’intera crisi politica della città, provocata dai suoi «maggiorenti conservatori», che ne ipotecano «le forme ed i tempi dello sviluppo».
E contro quest’ordine delle cose insorgono i popolani nel settembre 1845 con Pietro Renzi, lasciando una testimonianza di rivolta contro l’arretratezza e la stagnazione degli Stati Pontifici. Parte degli insorti fuggono via mare, aiutati proprio dai pescatori riminesi.
Nel successivo novembre i nostri marinai tentano una sommossa contro l’aumento del prezzo del grano. Il Cardinal Legato Giorgi con un editto assicura la popolazione che il governo vegliava anche sopra i poveri, e che non temessero.
Altre due proteste delle donne di marina avvengono nel luglio 1848, la seconda con l’incendio totale di una barca che doveva esportare grano a Venezia.
Nel 1855 arriva il «Cholera Morbus» con i suoi danni anche sull’attività marittima, e con 717 decessi dei 1.264 affetti su di una popolazione cittadina di 17.627 abitanti. La sua prima comparsa è proprio nel Borgo di San Giuliano con la morte di un pescatore il 18 marzo, dopo tre giorni di malattia. Quel Borgo San Giuliano che un suo figlio illustre, lo scrittore Luigi Pasquini, battezzerà come «il sobborgo più torbido della città», e «covo di “anarchici storici”».

Antonio Montanari


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Thursday, September 04, 2008

Il quindicesimo secolo vede Rimini ed i suoi signori, i Malatesti, alla ribalta dell'Europa. Ne raccontiamo in breve la storia.

Papa Gregorio XII, eletto nel 1405, si rifugia a Rimini il 3 novembre 1408 mentre si prepara il concilio di Pisa e dopo che Carlo Malatesti (1368-1429), signore di Rimini, lo ha salvato da un tentativo di cattura. La grande stagione malatestiana all'interno della vita della Chiesa comincia in questa occasione.

Carlo, per contattare il collegio cardinalizio, utilizza Malatesta I (1366-1429), signore di Pesaro, che in precedenza si è offerto a Gregorio XII per una missione diplomatica presso il re di Francia, inseritosi nelle dispute ecclesiastiche per interessi personali.

La parentela fra il ramo marchigiano e quello riminese, è in apparenza lontana. Il capostipite è Pandolfo I (1304-1326) figlio del fondatore della dinastia Malatesta da Verucchio che aveva conquistato Rimini nel 1295. Da Pandolfo I sono nati Galeotto I (1299-1385) e Malatesta Antico detto Guastafamiglie (1322-1364) al quale fa capo il ramo marchigiano con suo figlio Pandolfo II (1325-73) signore di Pesaro, Fano e Fossombrone, ed il figlio di costui Malatesta I, padre di Cleofe e Galeazzo.
Il ramo riminese-romagnolo deriva da Galeotto I, fratello del bisnonno di Cleofe e Galeazzo. Carlo è figlio di Galeotto I. A consolidare la parentela, oltre gli affari e le imprese mercenarie, sono state due sorelle di Camerino, Gentile da Varano sposatasi con Galeotto I (1367), ed Elisabetta con Malatesta I (1383).

Malatesta I è stato in affari con Urbano VI, prestandogli diecimila fiorini e ricevendo in pegno biennale il vicariato nella città di Orte (1387). Il papa gli ha anche chiesto il suo aiuto nello stesso anno per proteggere l'arcivescovo di Ravenna Cosimo Migliorati cacciato dalla città. E poi nel 1391, di difendere gli interessi della Santa Sede contro i ribelli di Ostra (Montalboddo).

I lavori a Pisa iniziano il 25 marzo 1409. Gregorio XII è dichiarato deposto. Carlo arriva a Pisa come mediatore fra Gregorio XII ed i padri conciliari, ma in sostanza quale suo difensore. Non è accettata la sua offerta di Rimini per sede dell'assise ecclesiastica, parendogli Pisa non adatta in quanto sottoposta alla dominazione dei fiorentini, avversari di Gregorio XII.

Il primo approccio fra Carlo ed il concilio avviene attraverso Malatesta I che si era attivato dopo l'elezione di Gregorio XII avvenuta il 2 dicembre 1406, ricevendo in premio il vitalizio del 1410. Mentre era capitano generale di Firenze, Malatesta I aveva avviato negoziati fra lo stesso Gregorio XII e l'antipapa Benedetto XIII (eletto nel 1394), entrambi deposti in contumacia a Pisa il 5 luglio 1409 e dichiarati «scismatici, eretici e notoriamente incorreggibili». Il loro posto, su iniziativa del cardinal Baldassarre Cossa, è preso il 20 giugno 1409 da Alessandro V (che scompare il 4 maggio 1410), detto «il papa greco» provenendo da Candia. Gli succede Giovanni XXIII il 17 maggio 1410.

Il 28 giugno 1410 l'antipapa Giovanni XXIII ricompensa Malatesta I dei danni subiti e delle spese fatte nei servizi ampi e fruttuosi prestati alla Chiesa durante il concilio di Pisa, «circa extirpationem detestabilis scismatis et consecutionem desideratissime unionis». E gli attribuisce «vita durante» la somma di seimila fiorini all'anno, cifra significativa se paragonata ai 1.200 del censo.

Carlo Malatesti, pur avendo visto fallire la sua missione a Pisa con il rifiuto del trasferimento del concilio a Rimini, era tornato alla carica con un messaggio ai padri che però giunse quando essi erano già i conclave per scegliere «il papa greco». Carlo interviene ancora presso i cardinali convenuti a Bologna per le esequie di Alessandro V.

Al nuovo papa Giovanni XXIII (quel Cossa con cui era stato riappacificato dal fratello Pandolfo III), Carlo scrive da Venezia prospettandogli vari progetti per addivenire alla riunione della Chiesa, prima di muovergli guerra nell'aprile 1411 come rettore della Romagna per ordine di Gregorio XII e con l'aiuto di Pandolfo III, al fine di «reperire pacem et unionem Sactae Matris Ecclesiae».

Gregorio XII in una bolla del 20 aprile 1411 scrive che Carlo, «verae fidei propugnator», aveva giustamente deciso «se de mandato nostro movere, et pro defensione catholicae fidei, ac honore et statu, atque vera unione ac pace universali Ecclesiae».
In dicembre a Carlo i veneziani, fedeli a Giovanni XXIII, affidano un esercito da guidare contro l'imperatore Sigismondo. Nell'agosto 1412, Carlo resta ferito e deve lasciare il comando al fratello Pandolfo III.

Il 24 dicembre 1412 Gregorio XII ritorna a Rimini da Carlo che nel frattempo ha invano tentato di costituire una lega a favore del papa.
A Carlo all'inizio di gennaio 1413 i fiorentini spediscono un messo nella vana speranza di poter convincere Gregorio XII a rinunziare al pontificato convalidando così l'elezione di Giovanni XXIII, che il signore di Rimini invece considerava nulla.

A novembre 1413 Pandolfo III, fratello di Carlo di Rimini e signore di Brescia e Bergamo, si reca a Cremona per rendere omaggio al re d'Ungheria ed a Giovanni XXIII. Con il re d'Ungheria, che aveva sottratto alla Serenissima i territori di Treviso, Udine, Cividale e Feltre, trattative erano state intavolate da Malatesta I. Al quale si rivolge Giovanni XXIII allo scopo di attirare dalla propria parte Carlo Malatesti.

Per consolidare la sua posizione, Giovanni XXIII convoca un altro concilio a Roma, invocando la protezione dell'imperatore Sigismondo. Il quale impone come sede la città di Costanza. Dove ritroviamo Carlo Malatesti. E dove Giovanni XXIII è dichiarato decaduto, per cui fugge nella notte fra il 20 ed il 21 aprile 1415.
Sia a Pisa sia a Costanza, Carlo s'impone come mediatore fermo ma aperto alle altrui ragioni, oltre che sottile analista ed dotto polemista, mettendo in ombra ruolo e figura di Malatesta I. Il quale imita l'atteggiamento di Carlo a favore di Gregorio XII, ed abbandona Giovanni XXIII dimenticando il cospicuo vitalizio da lui ricevuto nel 1410.

Il concilio di Costanza si apre solennemente il 5 novembre 1414. Il 13 maggio 1415 vi si legge la lettera scritta da Carlo a Brescia il 26 aprile come procuratore speciale di Gregorio XII «ad sacram unionem perficendam». Per ringraziamento Gregorio XII il 13 giugno da Montefiore Conca concede un vicariato decennale in alcuni castelli della Chiesa ravennate al fratello di Carlo, Andrea Malatesti.

Carlo giunge a Costanza sabato 15 giugno. Il 16 si presenta all'imperatore Sigismondo, «significandogli la propria missione, e come fosse diretto a lui, non al Concilio, che Papa Gregorio non riconosceva». Nei giorni successivi Carlo visita i deputati delle singole nazioni, con particolari ricevimenti da parte di quelli italiani, inglesi, tedeschi e francesi ai quali illustra la sua funzione di incaricato «ad emettere semplicissima rinunzia a nome» di Gregorio XII. Aggiunge però «gli intendimenti suoi sulle formule da osservare» con richiami all'«autorità di scritture e Padri».

Il 16 giugno Carlo incontra anche Manuele II imperatore d'Oriente, che nel 1421 diventerà suocero di Cleofe, la sfortunata figlia di Malatesta I di Pesaro. Del matrimonio fra Cleofe e Teodoro Paleologo, forse concluso con la morte violenta della giovane, non hanno scritto la storia i contemporanei. A noi non è giunta nessuna narrazione utile a completare gli scarsi documenti sopravvissuti, tra cui quattro lettere della stessa Cleofe ad una sorella. Il velo dell'oblio può non essere casuale. Se ne dovrà riparlare in altra pagina.

A Costanza si trovano anche il patriarca di Costantinopoli Giovanni Rochetaillée [De Rupescissa], ed un arcidiacono bolognese nominato nel 1413 amministratore loco episcopi della diocesi di Brescia, Pandolfo figlio di Malatesta I e fratello di Cleofe, che nel 1417 sarà presente nel conclave da cui esce eletto Martino V, e che nel 1424 sarà inviato come arcivescovo alla diocesi di Patrasso che dipendeva da Costantinopoli.
Brescia, sia ripetuto en passant, era governata da Pandolfo III di Rimini, fratello di Carlo. Dall'ottobre 1418 e sino al 1424 il pesarese Pandolfo è vescovo di Coutances in Normandia, nei duri momenti della conquista inglese nel corso della guerra dei cento anni.

Il 4 luglio 1415 Carlo legge la bolla di rinuncia di Gregorio XII (scritta a Rimini il 10 marzo), stando seduto al fianco dell'imperatore Sigismondo che presiede la sessione conciliare (XIV) intitolata «Sede Apostolica vacante», per sottolineare la svolta ai fini della chiusura dello scisma.

Il 6 luglio a Costanza è bruciato vivo Giovanni Huss, seguace di Wycliff e capo di una rivolta autonomistica in Boemia che impensieriva Sigismondo. Huss era stato invitato con un salvacondotto dell'imperatore. Fu attirato nella trappola dai padri conciliari che, non paghi del rogo su cui era stato giustiziato, fecero riesumare le sue ceneri per disperderle al vento come ultimo oltraggio.

Il 15 luglio all'ormai ex Gregorio XII ritornato cardinal Angelo Correr, è conferita a vita la legazione della Marca d'Ancona. Ed in tal veste egli utilizzerà i buoni uffici e le armi di Carlo per riportare all'ordine la Chiesa di Recanati passata all'antipapa Giovanni XXIII (nel frattempo arrestato, dopo la fuga da Costanza). Angelo Correr muore a Recanati il 26 novembre 1417.

Nello stesso anno a Costanza il 26 luglio è deposto Benedetto XIII per la seconda volta dopo Pisa. L'11 novembre l'elezione di Martino V, Oddone Colonna, pone fine allo scisma. Il fratello del nuovo papa è il padre di Vittoria Colonna che l'anno precedente è andata sposa a Carlo Malatesti di Pesaro, il fratello di Cleofe.

Non è illogico ipotizzare che il nome della fanciulla sia circolato a Costanza in quel summit politico-religioso in cui l'unità della Chiesa tanto invocata non poteva limitarsi soltanto alla risoluzione dello scisma d'Occidente ma doveva estendersi anche a quello d'Oriente, più antico, più complesso e, come gli sviluppi successivi avrebbero dimostrato, meno facile da affrontare e sanare. Nella prospettiva di un nuovo quadro dei rapporti tra Roma e Costantinopoli, forse fu progettato come fase propedeutica il doppio matrimonio fra i figli di Manuele e due fanciulle cattoliche, appunto Cleofe di Pesaro e Sofia del Monferrato.

Chiuso il concilio di Costanza il 22 aprile 1418, Martino V torna in Italia. Il 12 ottobre è a Milano, verso il 20 va a Brescia da dove parte il 25 diretto a Mantova. Per difendere i territori della Chiesa, il papa ha altri contatti con i Malatesti di Rimini e Pesaro. I quali nel frattempo hanno ottenuto la liberazione di Galeazzo figlio di Malatesta I di Pesaro e Carlo di Rimini catturati il 12 luglio 1416 da Braccio di Montone (1368-1424).

Per la loro liberazione, la moglie di Carlo, Elisabetta Gonzaga, si era appellata ai padri conciliari. Malatesta I ed il figlio Carlo di Pesaro avevano percorso tutte le possibili strade diplomatiche. Per il riscatto dei prigionieri alla fine dovettero intervenire il duca di Urbino, Guidantonio di Montefeltro e Gian Francesco Gonzaga. Guidantonio di Montefeltro era coinvolto dalla moglie Rengarda (sorella di Carlo il prigioniero) e dalla sorella Battista (moglie di Galeazzo, l'altro prigioniero). Gian Francesco Gonzaga era non soltanto figlio di Francesco Gonzaga (morto nel 1407 e fratello di Elisabetta moglie di Carlo di Rimini) e di Margherita Malatesti (+1399) sorella di Carlo, ma pure dal 1410 marito di Paola Malatesti sorella di Galeazzo e di Cleofe. Ad abundantiam, si consideri che Anna di Montefeltro, sorella di Battista e di Guidantonio, era la vedova di Galeotto Belfiore di Cervia (+1400), fratello di Carlo di Rimini.
Le ultime fasi della trattativa fra Braccio ed i Malatesti sono condotte da Pandolfo III di Brescia e Malatesta I di Pesaro. E ad accogliere il marito Galeazzo liberato (aprile 1417) si reca ad Iesi sua moglie Battista.

Quando Martino V dunque nell'ottobre 1418 passa per Brescia, vi trova Pandolfo III come suo vicario, e quale amministratore loco episcopi della diocesi Pandolfo figlio di Malatesta I e fratello di Cleofe.

Nella successiva tappa di Mantova dove arriva accompagnato da Pandolfo III, Martino V incontra Carlo di Rimini e la moglie Elisabetta. In giugno il papa ha chiesto a Carlo di appoggiare la lega che aveva formato con Napoli, ed un aiuto finanziario per pagare i soldati dello Stato della Chiesa. Carlo e Malatesta I hanno inviato un modesto contingente di soldati.
A Mantova il discorso di Martino V tocca una nota dolente per i Malatesti, quella della precarietà dei loro possedimenti in Lombardia. È quasi un annuncio di quanto succederà il 24 febbraio 1421 con la fine della signoria bresciana. Nel luglio 1418 un inviato del papa a Brescia ha cercato di indurre Pandolfo III a stipulare la pace con Milano o in alternativa concordare una tregua di sei mesi. In ottobre, prima dell'arrivo di Martino V, Pandolfo III ha avvisato Venezia dell'imminente visita del pontefice per convincerlo alla pace con i Visconti. Da Venezia hanno risposto che Milano aveva affidato al papa la questione di Brescia.

La riconciliazione fra Visconti e Malatesti avverrà nel febbraio 1419, con la promessa di Pandolfo III della restituzione di Bergamo e Brescia alla propria morte. Nel novembre 1419 Martino V lo esenta dal censo destinato alla Camera apostolica. L'anno successivo Pandolfo III rompe la tregua, ma assediato e stremato si arrende ricevendo in cambio 34 mila fiorini. Nel 1421 inutilmente Pandolfo e Carlo di Rimini, assieme al vescovo di questa città, supplicano Venezia di accogliere la donazione di Brescia ormai indifendibile dal Malatesti, e chiedono la concessione di un prestito di seimila ducati per assoldare a sostegno della loro causa addirittura quel Braccio di Montone che aveva fatto prigioniero Carlo di Rimini e Galeazzo di Pesaro.

La successiva carriera di Pandolfo III vede la carica di capitano generale della Chiesa (1422) e di Firenze (1423). Il 4 ottobre 1427, egli è colto da malore a Fano dove muore a 57 anni. Si narra che fosse in pellegrinaggio a piedi da Rimini a Loreto, per invocare la guarigione dai malanni che lo affliggevano, aggravati dalle fresche nozze (12 giugno) con una giovane fanciulla, Margherita Anna dei conti Guidi di Poppi. Le cronache malatestiane costruiscono la scena della sua scomparsa, con lui «ben confesso e contrito» fra le braccia di frate Iacono della Marcha, noto per le sue predicazioni contro gli hussiti in Ungheria e gli eretici «fraticelli» d'ispirazione francescana nell'Italia centrale.

Nessuna delle tre spose legittime gli lasciò eredi. Altrettanti figli ebbe dalle sue concubine, Allegra dei Mori (Galeotto Roberto) ed Antonia da Barignano (Sigismondo Pandolfo e Domenico Malatesta Novello). Essi dopo la morte del padre passano sotto la tutela dello zio Carlo di Rimini che li fa legittimare dal papa Martino V nel 1428. Nello stesso anno Galeotto Roberto prende in moglie Margherita d'Este, figlia del signore di Ferrara.

Ritorniamo a Mantova nell'ottobre 1418. Qui presso Martino V arriva pure Malatesta I. Il papa gli concede la rinnovazione della signoria di Pesaro e la sede vescovile di Coutances per suo figlio l'ecclesiastico Pandolfo, dal 22 marzo cappellano pontificio, con una rendita annuale di ottomila ducati. Poi giungono i coniugi Battista e Galeazzo di Pesaro. Lei, educata alle umane lettere, amate anche da suo padre Antonio conte di Urbino, si segnala per l'orazione gratulatoria che recita a Martino V.

A fine del novembre 1418 dal papa si reca Gian Francesco Gonzaga che l'11 gennaio successivo è creato duca di Spoleto. Nello stesso gennaio 1419 Martino V riceve anche Taddea di Pesaro, sorella di Cleofe e di Paola Malatesti moglie di Gian Francesco Gonzaga.

Martino V parte da Mantova per Roma il 30 gennaio 1419, e lungo il viaggio fa sosta a Ravenna. Nello stesso anno il papa nomina Guidantonio di Montefeltro, marito di Rengarda sorella di Carlo di Rimini, capitano generale contro Braccio di Montone.

Pacificata la Chiesa d'Occidente, il papa tenta di ripetere l'operazione con quella d'Oriente. Proprio nel 1419 avviene la scelta di Cleofe e di Sofia di Monferrato (destinata a Giovanni Paleologo, fratello dello sposo di Cleofe, e futuro basileo di Costantinopoli) che finiscono quali vittime sacrificali sull'altare di una «ragion di Stato» applicata alle questioni religiose. Ai Malatesti sembra di aver raggiunto la vetta della loro fama internazionale. Ma nel 1429 con la scomparsa di Carlo di Rimini (14 settembre), sino ad allora gran regista di tutti gli affari del casato, e di Malatesta I di Pesaro (19 dicembre), escono di scena i protagonisti di una stagione difficile ma con momenti indubbiamente esaltanti come la partecipazione al concilio di Costanza.

(1 - continua)
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Antonio Montanari